Commercio e divieto di vendita dei dati personali: i due opposti approcci

Il rapporto tra mercato, libertà di scelta e assoggettamento è complesso e caratterizza anche la monetizzazione dei dati personali. Esaminiamo il concetto giuridico di commodification e gli approcci i che si scontrano sul modello circolatorio delle informazioni in cui i dati personali possono essere usati come corrispettivo muovendo dall’assunto della filosofa del diritto Letizia Gianformaggio: “Ma il diritto non ha, forse, proprio la funzione di distinguere tra ciò che è materialmente nelle mani di qualcuno, che cosa è lecito e che cosa è illecito fare?” proseguiamo con l’analisi che ci guiderà nel cercare di definire i confini tracciati dalla legislazione – e dalla sua lettura ad opera di giurisprudenza e dottrina – con riferimento ai profili di legittimità della monetizzazione dei dati personali.

Occorre tener presente, tuttavia, secondo le parole di Stefano Rodotà, che “quando si parla di giuridificazione non si vuo­le alludere ad una qualsiasi presenza di norme: si vuole descrivere una realtà sulla quale un’area della vita sociale è sottoposta a regole con l’intento di esercitare un’azione di in­dirizzo, e dunque riducendo in quell’area l’autonomia di individui e organizzazioni. Ma […] l’intervento regolatore dello Stato può anche avere come fine quello di allargare proprio le possibilità di azione autonoma di determinati soggetti”. Per meglio comprendere tali dinamiche, sottese al dettato normativo, ci sembra interessante proporre una breve digressione sul dibattito dottrinale che ruota intorno al concetto di commodification.

Il nostro fine è quello di evidenziare come la complessità intrinseca al rapporto tra mercato, libertà di scelta e assoggettamento caratterizzi anche la monetizzazione dei dati personali.

Il concetto giuridico di commodification

Definiamo quindi, in via generale, il concetto giuridico di commodification, o mercificazione, con cui sovente ci si riferisce alla dislocazione della persona umana dalla sfera dell’indisponibilità giuridica a quella della libera disponibilità individuale. Così facendo il corpo umano, le sue parti, la sessualità, la riproduzione, ma anche la cultura di un popolo, l’identità personale e, finanche, per quel che qui ci interessa, i dati personali, divengono beni potenzialmente suscettibili di valutazione economica, collocabili sul mercato e passibili delle sue regole. La liceità degli atti di negoziazione viene a fondarsi sulla volontà liberamente espressa (nel pieno della sua capacità di agire) dal soggetto giuridico, che rende legittimo lo sfruttamento commerciale del bene oggetto di tutela, nella nostra fattispecie le informazioni personali, come beni immateriali disponibili e negoziabili.

Il riconoscimento normativo di uno spettro sempre più ampio di diritti della personalità va di pari passo, ça va sans dire, con una definizione della cornice normativa per quanto attiene al potere di disporne. Con riferimento agli atti di disposizione del corpoin primis, l’ordinamento italiano non ammette il requisito della patrimonialità. Stante il divieto assoluto di atti che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, posto dall’art. 5 del Codice civile, numerose leggi speciali – nonché norme di diritto sovranazionale – legittimano fattispecie di disposizione del corpo (si veda, ad esempio, la normativa in materia di donazione di rene, midollo osseo, sangue ecc.) in assenza di corrispettivo economico. Il principio di gratuità caratterizza, quindi, le scelte di politica legislativa nazionale.

Ma l’ordinamento non si comporta allo stesso modo con tutti i diritti, dal momento che accanto ai beni materiali troviamo beni che si riferiscono alle estrinsecazioni immateriali della persona (nome, immagine, dati personali), nei confronti dei quali è prevalso l’approccio regolatorio in virtù dell’adeguamento giuridico ai progressi della tecnica e, conseguentemente, alle connesse esigenze dettate dal mercato. Le modalità di disposizione di tali beni vengono delimitate definendo la soglia minima di tutela dei diritti della personalità (diritto alla vita, all’integrità fisica, all’onore, alla reputazione, all’identità personale, alla riservatezza ecc.), al di sotto della quale si scade nell’area dell’illiceità. Si noti che la tutela riguarda soltanto gli atti che incidono direttamente sul bene tutelato e il diritto ad esso correlato, escludendo quindi le fattispecie in cui la si verifica la potenziale lesione di un diritto in via indiretta e secondaria: vedremo nel prosieguo come la notazione rilevi con riferimento alla normativa in materia di protezione dei dati personali.

Sull’argomento il dibattito dottrinale si è sovente polarizzato, non soltanto in Italia. In un rapporto di costante tensione dialettica, da una parte, vi è chi ritiene − adottando la visione mercatistica − che il potere di disporre dei valori umani come una merce rappresenti un’opportunità di affrancamento per individui che versano in condizioni di debolezza economica e una garanzia di libertà, si pensi alla Scuola di Chicago e alla famosa opera di Richard Posner “Sex and Reason” in cui ogni aspetto della sessualità viene valutato dal punto di vista economico. Dall’altra vi è invece chi, specularmente, denuncia il rapporto di subordinazione − intrinseco e ineliminabile − che si trova a subire il contraente debole.

Il caso di John Moore

A sostegno dell’approccio regolatorio viene sovente citata la vicenda Moore v. the Regent of the University of California et al. svoltasi negli anni ‘70 negli Stati Uniti. Il protagonista John Moore, affetto da una forma di leucemia, era in cura presso il Medical Center dell’Università della California a Los Angeles (UCLA). Durante il trattamento del paziente, specificatamente dopo l’intervento chirurgico di asportazione della milza, i medici scoprirono che i tessuti prelevati producevano una particolare proteina del sangue, i linfociti T.

La scoperta originò la produzione di nuovi medicinali antibatterici e anticancerogeni, senza che nessuna notizia in merito all’accaduto raggiungesse il paziente Johne Moore. La linea cellulare fu dapprima brevettata nel 1981, in seguito l’università e i due medici stipularono un contratto con due case farmaceutiche che brevettarono nel 1984 una serie di innovativi medicinali. Fu così che Moore, dato che la sua milza originò la felice innovazione scientifica, agì in giudizio al fine di ottenere una compartecipazione ai profitti. Il giudice di primo grado respinse la richiesta di riconoscimento di un diritto di proprietà sulle proprie parti del corpo, la Corte d’appello ribaltò il precedente, mentre la Corte Suprema della California confermò il dettato del giudice di prima istanza ritenendo che non vi fosse alcun fondamento giuridico per la pretesa. Moore, ad ogni modo, ottenne il risarcimento del danno causato dalla mancata informazione della scoperta scientifica, configurabile come violazione del rapporto fiduciario tra medico-paziente .

L’approccio degli apologeti della commodification

Gli apologeti della commodification pongono l’accento sul paternalismo insito nell’intervento statale − incapace di allentare le briglie alla capacità di autogestione dei singoli − e sulla preferibile opzione per un diritto il più possibile “leggero” che si limiti a conferire liceità alla disponibilità della sfera personale senza invadere il campo con la lettera legislativa. Non essendo mortificate le dinamiche privatistiche è, così, nel potere di ciascun individuo fissare i termini dell’accordo in senso a lui favorevole. In via ulteriore, viene affermato che ai casi elencati si somma “una vastissima piattaforma sommersa che solo il velo di una dogmatica pudibonda impedisce di vedere” prima fra tutte la regola dell’in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis che esclude la ripetizione della prestazione se essa è contraria al buon costume, ma ne accetta comunque l’inevitabilità confinandola nella sfera del non giuridico.

Secondo Maria Rosaria Marella “l’uso selettivo – ma problematico − della dignità da parte del diritto si manifesta peraltro anche laddove lo scambio è patente. Se la sanzione giuridica colpisce il rapporto sessuale a pagamento perché lesivo della dignità di L., che ne è del contratto di lavoro di M., convinta vegetariana che per mantenersi agli studi lavora da McDonald’s, condannandosi ogni giorno a servire alla clientela centinaia di hamburger di carne bovina al sangue? E quanto lecita è l’attività lavorativa di R., docente di filosofia che per vivere scambia quotidianamente contro danaro non le proprie prestazioni sessuali, ma qualcosa di ancor più intimo, i propri pensieri, il prodotto della propriamente e della propria sensibilità”. Il passaggio citato è ispirato da un brano di Martha Nussbaum, la quale parte dall’assunto secondo cui “All of us, with the exception of the independently wealthy and the unemployed, take money for the use of our body”. Ebbene, le diverse forme di pagamento del corpo si differenziano per “il maggiore o minore grado di ripetitività e di autonomia nella gestione dei tempi e modi di lavoro, il grado di intrusione nel corpo, il reddito che assicurano al lavoratore, il tipo di rischio cui espongono il lavoratore e il tipo di gradimento o stigma sociale cui sono accompagnati”. Rilevanza centrale è, poi, assunta dal dilemma della commodification che Margareth Radin definisce the double bind: “The double bind has two main consequences. First if we cannot respect personhood either by permitting sales or by banning sales, justice requires that we consider changing in the circumstances that create the dilemma. We must consider wealth and power redistribution. Second we still must choose a regime for the meantime, the transition, in nonideal circumstances. To resolve the double bind, we have to investigate particular problems separately; decisions must be made (and remade) for each thing that some people desire to sell”. La conclusione è che il grado di rischio potrebbe verosimilmente essere fronteggiato attraverso politiche neo-regolamentariste.

L’approccio proibizionista

Di contro, l’approccio proibizionista si colloca sulla scia di sentenze di opposta impostazione, come la nota decisione del 1981 con cui il Bundesverwaltungsgericht, tribunale amministrativo federale tedesco, si pronunciò su di un caso inerente una forma di sesso commerciale, il cd. peepshow, in cui la persona viene mostrata isolata, al di fuori di ogni relazione con chi la osserva. Il Tribunale ritenne che la pratica oggetto di accertamento fosse illecita perché contraria al buon costume e contrastante con l’articolo 1, comma 1, della Costituzione tedesca che tutela la dignità umana, a causa della spersonalizzazione della donna, privata di ogni possibile relazione con lo spettatore. La Corte di Cassazione tedesca si è successivamente allineata con l’orientamento espresso dal tribunale nella sentenza descritta. (BVerwG, Urt. v. 15. 12. 1981, BVerwGE 64, 274). Un altro caso (Morsang‐sur‐Orge), noto quanto il primo, si svolse in Francia nel 1995 e riguardò il cd. dwarf-tossing, una forma di attrazione disumanizzante in cui una persona affetta da nanismo viene lanciata verso un bersaglio. La pronuncia del Consiglio di Stato francese confermò la decisione dell’autorità amministrativa che ne vietava l’esecuzione, rigettando così il ricorso depositato dallo stesso lavoratore circense affetto da nanismo. (Cons. État Ass., 27.10.1995, Commune de Morsang‐sur‐Orge). In entrambe queste vicende è stata applicata in via giudiziaria la cd. regola della simmetria morale, in forza della quale non vi è distinzione tra il caso in cui il danno sia inferto a se stessi e quello in cui sia inferto agli altri.

Dati personali come corrispettivo: tre modelli possibili

Arriviamo ora a meglio comprendere gli approcci che rispettivamente si scontrano sul modello circolatorio delle informazioni in cui i dati personali possono (e forse debbono?) essere utilizzati come corrispettivo. Tralasciamo qui la rassegna degli orientamenti che ricalcano contrapposizioni antitetiche a quelle illustrate supra. Mentre una tematizzazione che ci sembra tra le più interessanti propone, in un climax ascendente, una lettura articolata su tre principali scuole di pensiero: “zero-price”, “personal data economy”, “pay for privacy”.

Il primo modello, cosiddetto zero-price, si presenta come un sistema in cui il conferimento dei dati personali viene avvertito come una componente implicita del servizio prestato gratuitamente dal fornitore, tipicamente una piattaforma di servizi digitali, e non invece come corrispettivo per il servizio sottoscritto. A questo proposito rileva accennare che approfondiremo queste operazioni, cd. tying, in occasione dell’analisi sul consenso al trattamento/contrattuale.

Nel secondo modello, cosiddetto personal data economy, l’utente si trova di fronte a proposte commerciali di conferimento dei dati personali che gli garantiscono di ottenere prestazioni di qualità più elevata.

Il terzo modello, cosiddetto pay for privacy, prevede che la forma del corrispettivo sia liberamente determinabile da parte dell’utente, che potrà quindi optare per il conferimento dei suoi dati personale o, viceversa, per il pagamento in denaro. In ciascuno di questi modelli il consenso riveste un ruolo centrale ma le rispettive condizioni di esercizio non sono parificabili: vedremo come una rilettura della clausola del consenso possa ridurre l’asimmetria tra interessato/utente e titolare del trattamento/prestatoredel servizio .

Conclusioni

Terminata qui la rassegna dottrinale sull’argomento, nei prossimi capitoli procederemo ad analizzare la normativa, partendo dai fondamenti comunitari e internazionali del diritto alla privacy, per poi approfondire il consenso al trattamento dei dati personali (in particolare nelle sue correlazioni con l’elemento contrattuale del consenso), le Direttive n. 770/2019 (“Contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali”) e 771/2019 (“ Relativa a determinati aspetti dei contratti di vendita di beni”). Dedicheremo, infine, come già anticipato in sede introduttiva, una parte conclusiva all’analisi della giurisprudenza amministrativa più recente

Fonte: Agendadigitale

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